Riprendono le pillole di psicopatologia aziendale in cui abbiamo iniziato a guardare all’azienda come campo culturale e relazionale.
Attualmente ci troviamo in una contraddizione di cultura, tra la visione dell’uomo al lavoro e la visione dell’uomo nella società in cui viviamo: questa finisce per essere la radice da cui nascono patologie di sistema che si riversano poi sui singoli.
Fino a qualche decennio fa, l'azienda adottava un modello militaresco: vigeva l’etica protestante secondo cui il lavoro era il valore centrale intorno a cui le persone organizzavano la propria vita. Oggi però la società si basa sul consumo e sulla preziosità del tempo libero della vita, quello non dedicato al lavoro. Si è fatta strada, soprattutto nelle nuove generazioni, l’idea del “la vita è breve e incerta per cui bisogna godersela, cercando sensazioni piacevoli ed immediate nel tempo”.
Ecco quindi che un'azienda che perpetua la visione culturale tradizionale in cui il lavoro è la misura delle capacità e del successo, che si basa sulle logiche del rispetto del comando e delle regole e che si aspetta di attrarre nuovi talenti che si adeguino totalmente a tali logiche, dimenticandosi dell’Io, del Sé e dei sentimenti, dovrà affrontare dinamiche critiche.
La soluzione più facile e concreta è forse quella della flessibilità, ma servono poi altri modi per cercare un compromesso, perché la flessibilità tampona e aiuta a breve termine, ma non insegna a vivere fianco a fianco. L’obiettivo dell’azienda deve infatti essere quello di convergere affetti, interessi e progetti, favorire relazioni che moltiplichino le possibilità di uno e dell’altro e non di essere una sommatoria senza sinergia. Non si può più essere ciechi di fronte a tale fenomeno, tanto che chi troverà soluzioni di qualità avrà un enorme vantaggio competitivo.
